Molestie sessuali sul luogo di lavoro: licenziamento per giusta causa
In un caso recente la Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici di merito che avevano considerato giusta causa di licenziamento il comportamento di un uomo che aveva rivolto allusioni verbali e fisiche a connotato sessuale nei confronti di una collega da poco assunta.
Come affermato in altra pronuncia (sentenza n. 25977/2020 della Corte di Cassazione) il licenziamento può considerarsi sorretto da giusta causa e misura proporzionata in caso di molestia sessuale in quanto tali requisiti vanno valorizzati rispetto a quanto richiesto dai valori dell’ordinamento per come esistenti nella realtà sociale.
In un altro caso, il giudice del lavoro ha chiarito che ai fini della giusta causa di licenziamento la molestia non deve necessariamente essere integrata da un “atto finale” in forma fisica, potendo bastare espressioni anche verbali indesiderate idonee a ledere la dignità della vittima-destinataria.
Le sentenze pronunciate in materia chiariscono che, ai fini della qualificazione come “giusta causa” di licenziamento della molestia sessuale, non è rilevante il fatto che il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro o il codice disciplinare aziendale non prevedano espressamente tale ipotesi.
Rispetto a violazioni della dignità del lavoratore compiuta attraverso comportamenti indesiderati di connotazione sessuale, infatti, il licenziamento c.d. “in tronco” costituisce una sanzione proporzionata da parte del datore di lavoro, come detto obbligato in ogni caso ad adottare tutti i provvedimenti idonei e necessari a tutelare l’integrità psico-fisica dei suoi dipendenti.
Il Decreto Legislativo n. 198/2006 intitolato “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna” ha delineato una definizione normativa di molestia sessuale. Quest’ultima viene descritta come una serie di comportamenti indesiderati a sfondo sessuale, espressi sia verbalmente che non verbalmente, con l’intento o l’effetto di ledere la dignità di lavoratori e lavoratrici e di creare un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo. Successivamente, nel 2010, l’Italia ha implementato la Direttiva Europea 2006/54/CE attraverso il Decreto Legislativo n. 5/2010, finalizzata a promuovere il principio della parità di trattamento tra uomo e donna.
All’articolo 2 co. 1 lett. d) definisce la molestia sessuale come «situazione nella quale si verifica un comportamento indesiderato a connotazione sessuale, espresso in forma verbale, non verbale o fisica, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare attraverso la creazione di un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».
Per molestia sessuale si intende alludere a tutti quei comportamenti attinenti alla sfera sessuale che risultano essere lesivi della dignità morale della persona, a maggior ragione considerato che, essendo messi in atto sul luogo di impiego, violano anche il diritto fondamentale al lavoro.
Laddove poi il comportamento molesto sfoci in veri e propri atti sessuali comportanti contatto fisico si ricade (anche) nella grave ipotesi di reato di violenza sessuale cui all’art. 609 bis c.p.
La vittima di una molestia sessuale sul luogo di lavoro deve attivarsi il prima possibile raccogliendo più elementi possibili da utilizzare come prova dei comportamenti attuati nei suoi confronti (come ad es., comunicazioni e-mail o telefoniche, testimonianze di colleghi, etc.).
Una volta raccolte le prove si procede con una denuncia-querela penale e comunicando al datore di lavoro l’accaduto. Se il molestatore è proprio il datore di lavoro oppure se alla denuncia del/della dipendente non è dato adeguato seguito, la vittima può rivolgersi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro al fine di sollecitarne l’attività propria di controllo e vigilanza (cfr. art. 2 D.Lgs., n. 149/2015).
Nel rapporto di lavoro subordinato il dipendente deve rispettare i generali doveri di diligenza, obbedienza e fedeltà nei confronti dell’imprenditore (cfr. art. 2104 e art. 2105 c.c.), la loro inosservanza legittima il datore ad esercitare il potere disciplinare. Lo scopo di tale potere è quello di consentire all’imprenditore di tutelare l’organizzazione aziendale, anche attraverso il rispetto da parte dei lavoratori degli obblighi di legge e contrattuali, e si traduce nella possibilità di intimare sanzioni disciplinari nei confronti del lavoratore colpevole di trasgressione (cfr. art. 2106 c.c.).
La sanzione disciplinare più significativa che il datore di lavoro può imporre è il licenziamento disciplinare, che può essere attuato per giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Attraverso questa misura, l’imprenditore può porre fine al rapporto di lavoro a causa di comportamenti particolarmente gravi da parte del dipendente, che compromettono il legame di fiducia. Nei casi in cui si verifichino comportamenti riconducibili alla molestia sessuale, il datore di lavoro può avvalersi del suo potere disciplinare. Se dopo il procedimento previsto dalla legge (come stabilito dall’art. 7 della Legge n. 300/1970, conosciuta come “Statuto dei Lavoratori”) l’accusa è considerata fondata, il datore può adottare la sanzione disciplinare ritenuta appropriata, che può includere il licenziamento disciplinare.
Spesso i colleghi del lavoratore molestato assistono alle molestie o vengono a conoscenza di determinati fatti trovandosi di fronte al dilemma di decidere cosa fare. È innegabile che vi sia paura di esporsi con il datore di lavoro e colleghi per evitare di subire ripercussioni negative nella sfera personale e lavorativa. Per porre rimedio a tale obiettiva problematica è stato introdotto anche nel nostro ordinamento lo strumento del c.d. “whistleblowing” ovverosia della possibilità per un soggetto, il cui anonimato viene garantito, di segnalare al datore di lavoro la possibile commissione di illeciti penali, civili ed amministrativi.
La normativa di riferimento è quella prevista dal Decreto Legislativo n. 24/2023 il cui ambito di operatività è per il momento fortemente limitato in quanto, tra l’altro, legato ad una determinata soglia quantitativa di dipendenti impiegati nell’ultimo anno. L’auspicio è quindi nel senso che l’efficacia di tale strumento, una volta messo alla prova dell’esperienza concreta, possa essere amplificata.
Una disamina della giurisprudenza recente consente di affermare che allusioni e “avances” a sfondo sessuale messe in atto all’interno dell’ambiente di lavoro giustificano il licenziamento del lavoratore colpevole.