Il dramma delle lavoratrici agricole immigrate tra ricatti e violenze sessuali

La piaga dello sfruttamento agricolo è sempre più diffusa in Italia: nel 2018 un bracciante su 6 era sfruttato, di questi l’80% erano migranti. Dopo l’atroce vicenda del giovane indiano Satnam Singh, è tornata prepotentemente sotto i riflettori della cronaca, dell’opinione pubblica e della politica. WeWorld si è concentrata in modo particolare sula situazione delle donne, le lavoratrici, nella filiera agro-alimentare, con testimonianze dirette che fotografano la condizione di assenza di sicurezza, precarietà, mancanza dei diritti basilari in molte aziende agricole. Nelle campagne dell’Agropontino, le lavoratrici indiane, rumene, nigeriane raccontano giornate lavorative di 16 ore, 7 giorni su 7, per 4,5-5 euro all’ora. Si lavora in ginocchio, con pause ridottissime, con pressione costante da parte dei caporali o dei datori di lavoro, in certi periodi a temperature altissime, insostenibili, respirando i pesticidi senza alcun dispositivo di protezione. Le donne, poi, rispetto agli uomini sono ancora più vulnerabili, ricattabili, sottoposte a varie forme di violenza e persecuzione. Ancora peggiore è la condizione delle braccianti indiane che hanno figli, perché subiscono ulteriori forme di ricatto e violenza proprio in quanto madri.

La morte di Satman Singh e il dramma di tante lavoratrici e lavoratori stranieri si inseriscono nel contesto di un sistema economico estrattivista – commenta WeWorld – basato su riduzione all’osso dei costi, razzismo e discriminazione degli immigrati, che vivono spesso in una condizione di ghettizzazione ed emarginazione, quindi di maggiore debolezza, a causa delle barriere culturali e linguistiche. A tutto questo, sottolinea la Ong, si unisce la connivenza culturale delle comunità dei migranti che tollerano i meccanismi di sfruttamento lavorativo.